Miti & leggende

SCILLA E CARIDDI

Cariddi, nella mitologia greca era un mostro marino, figlia di Poseidone e Gea, che formava un vortice marino, capace di inghiottire le navi di passaggio. La leggenda la situa presso uno dei due lati dello stretto di Messina, di fronte all’antro del mostro Scilla. Le navi che imboccavano lo stretto erano costrette a passare vicino ad uno dei due mostri. In quel tratto di mare i vortici sono causati dall’incontro delle correnti marine, ma non sono di entità rilevanti. L’espressione «essere tra Scilla e Cariddi», indica il rischio di sfuggire ad un pericolo per correrne un altro. Secondo il mito, gli Argonauti riuscirono a scampare al pericolo, rappresentato dai due mostri, perché guidati da Teti madre di Achille, una delle Nereidi.Cariddi è menzionata anche nel canto XII dell’Odissea di Omero, in cui si narra che Ulisse preferì affrontare Scilla, per paura di perdere la nave passando vicino al gorgo.


L’ORACOLO DI CAPO VATICANO

A lungo considerato luogo inaccessibile e sacro, Capo Vaticano, con il suo promontorio magico, si affaccia sul mar Tirreno nella provincia calabrese di Vibo Valentia. La magia salta agli occhi già dal nome: Vaticano deriverebbe infatti dal latino Vaticinium, che significa oracolo, responso, a rievocare una leggenda che vuole la punta estrema del promontorio abitata dalla profetessa Manto.  A lei si sarebbero rivolti i naviganti prima di avventurarsi tra i vortici di Scilla e Cariddi e lo stesso Ulisse, scampato agli scogli del pericolo, avrebbe chiesto auspici a Manto circa la prosecuzione del suo viaggio. Ricorda le antiche origini di questo mito anche lo scoglio che sta davanti al capo e porta il nome di Mantineo, dal greco Manteuo, dò responsi. Sotto il promontorio si distendono spiagge di sabbia bianca e finissima, lambite da un’acqua cristallina. Tra le spiagge più suggestive Torre Ruffa, teatro di una triste e leggendaria vicenda. Rapita dai Saraceni, la bella e fedele vedova Donna Canfora si sarebbe gettata dalla loro nave al grido: “Le donne di questa terra preferiscono la morte al disonore!”. Proprio per onorarne il sacrificio il mare cangia colore ad ogni ora ad assumere tutte le sfumature dell’azzurro velo che ne cingeva il capo, mentre l’eco delle onde che s’infrangono contro la battigia altro non sarebbe che lo struggente lamento con cui Donna Canfora saluta ogni notte la sua amata terra.
Pagine piene d’amore furono invece dedicate a questa terra dal veneto Giuseppe Berto che scelse Capo Vaticano per dimora e definì questo tratto di litorale “Costabella”, molto contribuendo allo sviluppo turistico della zona.
Un tempo arido e selvaggio, oggi il promontorio è un giardino incantevole, un affaccio naturale sul mare con una delle viste più sorprendenti sulle isole Eolie.


LA PIETRA DEL DIAVOLO

Sul monte che sovrasta la cittadina di Palmi, un uomo dal volto nero, con un gran sacco sulle spalle, si presentò al Santo Elia, che se ne stava in solitaria meditazione. L’uomo, che era il diavolo, aprì il sacco e mostrò al Santo una grande quantità di monete.

Raccontò che aveva trovato l’ingente fortuna in un casolare abbandonato e pensava di poterla dividere col Santo, il quale, invece, prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china: mentre rotolavano si tramutavano in pietre nere, di quelle che ancora oggi si possono reperire sul monte.
Contrariato, il diavolo balzò in piedi, ma, all’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si innalzò una nuvolaglia e, quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineò un’isola a forma di cono, dalla cui sommità incavata uscivano lingue di fuoco e fumo: era lo Stromboli col demonio imprigionato che soffiava fiamme e tuoni.

Sul monte Sant’Elia si trova ancora un macigno con le impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel mare, mentre lo Stromboli, nei chiari tramonti, continua con fare sornione a fumare la sua antica pipa.


LA FATA MORGANA

Se in una calda giornata estiva, passeggiando sullo splendido lungomare reggino che D’Annunzio definì “il più bel chilometro d’Italia”, vi capitasse di vedere paesi e palazzi della costa siciliana deformarsi e specchiarsi tra cielo e mare, vicini a tal punto da distinguerne gli abitanti, non dovete impressionarvi. Siete solo vittime di un incantesimo. E’ la Fata Morgana, un fenomeno ottico simile a un miraggio che si può osservare dalla costa calabra quando aria e mare sono immobili. La leggenda racconta che anche Ruggero I d’Altavilla fu incantato dal sortilegio. Per indurlo a conquistare la Sicilia, con un colpo di bacchetta magica la Fata Morgana gliela fece apparire così vicina da poterla toccare con mano. Ma il re normanno, sdegnato, rifiutò di prendere l’isola con l’inganno. E così, senza l’aiuto della Fata, impiegò trent’anni per conquistarla.


IL TESORO DI ALARICO

Re Alarico I, dopo il sacco di Roma, scese nel sud Italia dove prese la malaria. Morì a Cosenza nel 410 d.c. dove, secondo usanza visigota, venne seppellito insieme all’immenso tesoro sottratto a Roma proprio nel letto del fiume Busento, che per l’occasione venne deviato dal suo corso tramite un grande lavoro di ingegneria idraulica utilizzando centinaia di schiavi che, dopo aver ricondotto il fiume nel suo letto naturale, vennero trucidati dallo stesso esercito di Alarico per preservare la segretezza del punto della sepoltura. La leggenda di Alarico e della sua sepoltura nel Busento ha ispirato la poesia di August Graf von Platen Das Grab im Busento (La tomba nel Busento) con una rappresentazione romantica della morte e della sepoltura di Alarico. La poesia è stata tradotta in italiano da Giosuè Carducci.

Cupi a notte canti suonano
da Cosenza su’l Busento,
cupo il fiume gli rimormora
dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano
e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono
il gran morto di lor gente.

ELEGANTE SIBARI

Fu la più splendida delle colonie greche, celebre per il lusso e la dissolutezza dei suoi abitanti, al punto che ancora oggi chi si abbandona a una vita di piaceri viene definito un “sibarita”. Vestivano abiti di un’eleganza senza pari, tessevano l’oro, trascorrevano le notti in festini e dormivano su giacigli di petali di rose. Forse sono esagerazioni, ma è certo che questo popolo fosse così amante del bello e dell’armonia da aver bandito ogni forma di violenza. I sibariti e la loro leggendaria città furono cancellati dalla faccia della terra in un paio di mesi per mano dei crotoniati guidati da Milone, che per completare l’opera, su consiglio di Pitagora, arrivarono addirittura a deviare il corso del Crati. Di tanto splendore non restano che le storie fantastiche di uno stile di vita inarrivabile e, naturalmente, le rovine della città. Niente di spettacolare, in verità, visto che solo una piccola parte è stata riportata alla luce: resti di abitazioni in località Parco del Cavallo e di un santuario dedicato ad Athena nei pressi della stazione, dove sorge anche il Museo della Sibaritide.


IL PONTE DEL DIAVOLO

Su uno dei due fiumi che circondano Squillace (Cz), precisamente su quello chiamato Ghetterello, vi è un ponte detto del Diavolo. Costruito in una età mai definita, sorge con un’unica arcata. Il nome popolare del Diavolo gli deriva da una leggenda che ancora oggi si racconta: nella zona dove sorge il ponte, vi abitava tanto tempo fa un pastore, il quale, era costretto ogni volta ad attraversare il fiume. Si vide costretto dunque a costruire un ponte che gli permettesse di fare la traversata in modo agevole, e così fece. Le violente piene che periodicamente avvengono tutt’ora, però, ogni volta lo costringevano a ricostruire il ponte. E più ne costruiva e più il fiume se li portava via.   Così  che  un  giorno,   stanco  di ricostruire ogni volta il ponte, volle stringere un patto con il diavolo.
Il diavolo si sarebbe impegnato a costruire un ponte che mai nessuna piena avrebbe potuto portarsi via, in cambio, l’anima del primo essere che sarebbe passato sul nuovo ponte, sarebbe stata sua. Il diavolo, sicuro che il primo a passare sarebbe stato il pastore, costruì il ponte e aspettò la sua ricompensa. Il pastore che però non era certo ingenuo, richiamò il cane che si trovava sull’altra sponda del fiume e questo, udito il richiamo del padrone, attraversò il ponte di corsa e lo raggiunse. Il diavolo, vedendosi così beffato, si adirò e mollò un calcio al ponte con l’intento di buttarlo giù, ma questo, costruito solidamente non si mosse, ne rimase impressa invece l’impronta del piede. Ancora oggi infatti è possibile notare un’enorme buco nella fiancata del ponte, che come il povero diavolo aveva promesso, continua ad essere ancora lì e a resistere a distanza di tanti secoli alle piene e agli alluvioni che nella cattiva stagione si susseguono.